Souvenir della memoria, giocattoli per la fantasia: echi dell’immaginario contemporaneo nelle opere di Giuseppe Boschetti

Simonetta Nicolini

«Perché ci piacciono le palle di neve? Perché sono microcosmi che possiamo controllare. A prescindere dai soggetti che inglobano, ci dà una gioia bambinesca vedere la neve che cade. Il solo fatto di prenderle in mano, rovesciarle e poi guardarle diverte e suscita ricordi. Agitarle, ci rilassa» 1

Negli anni sessanta del Novecento, Santarcangelo era vissuto come ogni altro paese dell’entroterra. Il rapporto con la linea della costa, che si era aperta al turismo di massa e viveva modifiche radicali della propria forma, era segnato da una distanza: di non molti chilometri, tuttavia sentiti come una lontananza e una separazione. Il profilo del paese sulla collina aveva preso la forma che conosciamo nell’immaginario della gente del luogo e dei visitatori occasionali da più di un secolo. Si era lentamente sedimentata nel tempo l’idea di un luogo segnato e caratterizzato da alcuni edifici e siti (la Rocca, il “Campanone”, le “grotte”) e animato da ricorrenze annuali e stagionali che tramandavano un passato di commerci agricoli e manifatturieri (le fiere). Nei giorni feriali, come in quelli festivi, c’erano ancora ore in cui era possibile percorrere strade vuote, dove rarissimi risuonavano i passi di qualcuno.
All’inizio degli anni settanta la distanza tra la costa, con i suoi frequentatori stagionali, e il paese sembra accorciarsi: lungo la via Emilia, come d’altra parte nell’intera Pianura Padana, si infittiscono le costruzioni industriali e commerciali, che in questo territorio formano la catena che un poco alla volta congiunge Rimini a Santarcangelo. Negli stessi anni, il Festival del Teatro in Piazza trasfigura il paese in palcoscenico, seppure per un lasso di tempo breve.
Non credo sia un caso che, tra le prime opere di Giuseppe Boschetti, ci sia proprio un manifesto per il Festival (1978), che rappresenta la piazza del “Campanone” con un palco e tante figurette che animano la scena. Boschetti aveva iniziato alcuni anni prima con una pittura di aderenza realistica alle cose e di lenticolare precisione; poi era accaduto, come se fosse stato travolto da nuove fantasie, che divenisse protagonista il paese, scenario privilegiato, immaginato e reinventato. Compare, allora, nella sua pittura, una Santarcangelo riconoscibilissima, ma inverosimile, dove abitanti, case, spazi e fatti del quotidiano si compongono come dentro a teatrini in miniatura. La sua pittura assume un fascino che trova corrispondenza nella forma di antichi giochi: «I teatrini per le marionette, quelli giocattolo o di carta, – scrive Alfonso Cipolla – esercitano un fascino misterioso. Anche se non ci appartengono, anche se non ci abbiamo mai giocato, anche se sono immagine di un mondo a noi ormai lontano, i teatrini sono capaci di rapire il nostro sguardo e di convogliarlo all’interno delle scene fantastiche che custodiscono, accendendo la nostra immaginazione. Guardare un teatrino è un po’ come guardare il fuoco. Ci si incanta. E’ questione di luci e di barbagli. E’ il piccolo che cattura, dove il “piccolo”, però, non vuol dire minimo, ma vuol dire pertugio per un microcosmo sottratto alla realtà: un pertugio che è già porta verso il sogno » 2
Come per preparare uno spettacolo in un teatrino, Boschetti procede seguendo sempre un rituale scandito: prima disegna l’insieme in un bozzetto, poi ciascuna figura e cosa rifinita e dipinta nei dettagli; quindi, raggiunta la completezza delle parti, le compone nella completezza della tela, sempre procedendo, col pennello, dall’alto verso il basso, come se si trattasse, appunto, di una fiaba che si dispiega magicamente su un velario colorato visto attraverso la bocca di un minuscolo palcoscenico. Ciò che scorgiamo, allora, si mostra con l’evidenza di una visione stereoscopica, ed è un piccolo carnevale di forme narrate in smaglianti artificiosi colori. Mi sembra significativo ricordare che, al tempo in cui Boschetti cominciava a dipingere la sua fantasia sul mondo che lo circonda, la realizzazione del piano progettuale del colore predisposto per il restauro del centro storico di Santarcangelo iniziava a cancellare dalle pareti esterne degli edifici le tinte incerte e morse dal tempo che tanto erano piaciute a Federico Moroni, e le sostituiva con l’impasto compatto e vivido di tinte più adatte al fotocolor industriale che alla macchina da presa del cinema realista.
Il mondo che Boschetti presenta non è proprio una miniatura. Non tutto, nella sua visione, è infatti ridotto ai minimi termini: l’opera di riduzione a piccole forme trova una polarità e un annullamento, comunque spiazzanti, nelle dimensioni dei quadri, che, nell’insieme, possono essere anche molto grandi. A guardarli viene in mente quanto è stato osservato a proposito dello spazio di quelle città dei giochi, quei parchi dei divertimenti, “non-luoghi” inventati nel secondo Novecento per lo svago di massa (come non pensare che anche a pochi chilometri da Santarcangelo i turisti si affollano negli spazi artificiali e rassicuranti dell’ “Italia in miniatura”?): «E’ per cominciare una questione di scala – scrive Marc Augé -. Tutto è in grandezza naturale ma i mondi che si scoprono […] sono mondi in miniatura. La città, il fiume, la ferrovia sono modelli ridotti. Ma i cavalli sono veri cavalli, la auto vere auto, le case vere case […]. Dal contrasto tra il realismo degli elementi e la riduzione del paesaggio nasce un piacere particolare […]. Gli adulti […] apprezzano l’immediata contiguità dei piccoli mondi che si giustappongono come gli scenari di uno studio cinematografico del tempo che fu»3 Qualcosa di simile accade nei dipinti di Boschetti: Santarcangelo diventa un paese senza confini, al centro di un’astratta campagna, un luogo senza periferie, stretto pervicacemente alla confortevole mammella della collina, ignaro delle architetture industriali e geometrili che lo circondano; totalmente dedito ai rituali collettivi di una quotidianità che non produce rumori né odori fastidiosi, ma è scandita dal ritmo di filastrocche e canti popolari.
C’è un’evidenza ottica, nelle opere di Boschetti, che deriva anche, come spesso egli stesso ha ripetuto, dalla sua ammirazione per Pieter Bruegel il Vecchio, il pittore del realismo incantato e moraleggiante che, alla metà del Cinquecento, ad uso del gusto collezionistico di una borghesia facoltosa e un po’ beghina e di una nobiltà imbrigliata nei lacci dell’etichetta di corte, dipinge la memoria favolistica di un medioevo perduto (semmai fosse stato come lo si immaginava), reinventato come spazio del piacere e tempo dell’immediatezza del quotidiano, della gente semplice, di feste popolari che sembrano ignorare le fatiche del vivere. Seguendo Bruegel, Boschetti sceglie la veduta aerea sulle cose, apre uno sguardo rotondo su un mondo animato da piccoli accadimenti festosi, topoi narrativi e visivi della vita di paese che si dispiegano precisi sotto l’occhio rassicurato dell’osservatore: qui un calzolaio, là un’osteria, più sotto una sosta al banco del fruttivendolo, in alto la danza delle suore ospitaliere dal largo incredibile cappello bianco. Visto dall’alto, tutto appare più accattivante, come insegnano il “piccolo principe” e i cartoons, e come dichiara anche l’eroe di un’altra famosa fiaba del Novecento, il quattordicenne disobbediente e pigro, protagonista de Il viaggio meraviglioso di Nils Holgersson (1906-1907) di Selma Lagerlöf; il quale, dopo la fuga sul dorso di un’oca selvatica “torna a casa rinsavito, ma pieno di nostalgia di quella vita libera e selvaggia”: «la nostalgia riempì gli occhi di lacrime, come era dolce la vita che si conduceva un tempo! […]. Si coltivava il grano, ma anche le rose e il gelsomino: […] la memoria era piena di leggende e fiabe…». Dal volo “si ritorna con l’idea che la fantasia sia decisamente migliore della realtà”, osserva Francesco Cataluccio. 4
Ha ragione Boschetti a tappezzare le pareti della sua casa con il gioioso caleidoscopio del mondo in scatola che i suoi quadri rappresentano. Visti così, uno accanto all’altro, essi svelano con ancora maggiore efficacia la vena brillante dell’illustratore che registra l’invenzione figurativa di una Santarcangelo “paese particolare”, dove al vuoto silenzioso della povertà del dopoguerra si sostituisce il pieno brulicante che ha seguito la trasformazione degli ultimi decenni. Nella casa caleidoscopica, ogni piccolo e grande quadro si apre come una finestra sull’altro che l’accompagna e l’accosta sulla parete; e, come in un gioco di scatole cinesi, il nostro occhio passa da una scena all’altra senza soluzione di continuità. L’evidenza tattile di queste immagini si compone in un movimento che comunica ancora una volta una curiosa e infantile ebbrezza. E’ come se osservassimo tante bolle di vetro, rovesciate tutte insieme per produrre quella caduta di neve che eccita le fantasie dei bambini, ma che raggiunge anche il cuore degli adulti in cerca di un divertimento innocente e totalizzante. Non sorprende allora che queste opere ci attraggano per l’irresistibile allegrezza che provocano: sono come palle di neve che racchiudono luoghi incantati e remoti del nostro immaginare.

1
Duccio Canestrini, Trofei di viaggio. Per un’antropologia dei souvenir, Torino, Bollati Boringhieri, 2001, p. 65.

2
Alfonso Cipolla, La soglia del teatro. Appunti sui teatri di carta e i teatrini giocattolo, in particolare la tradizione italiana, in Imagerie, teatrini e sortilegi. La tradizione italiana ed europea, a cura di Alfonso Cipolla, Torino, Edizioni SEB 27, 2004, pp. 9-17, qui p. 14.

3
Marc Augé, Disneyland e altri non luoghi, Torino, Bollati Boringhieri, 1999, p. 21.

4
Francesco M. Cataluccio, Immaturità. La malattia del nostro tempo, Torino, Einaudi, 2004, p. 83.